La brutta storia della Liquichimica. Dalla produzione di bistecche alla centrale a carbone

salineioniche liquichimicadi Simone Carullo - E' una brutta storia quella della Liquichimica di Saline Joniche, una storia come se ne sentono solo in Italia, solo al Sud; e non soltanto perché è, insieme al V° polo siderurgico di Gioia Tauro, l'emblema indelebile del fallimento del riformismo democristiano e di quella politica assistenzialista che aveva già ispirato la Cassa per il Mezzogiorno del 1950 e che continuava irresoluta ed inefficace ancora negli anni '70, ma perché è una ferita ancora aperta che si ripresenta ad intervalli regolari in tutta la sua portata tossica, con tutti i suoi strascichi velenosi, senza permettere ai reggini di poterla finalmente gettare nell'oblio delle brutte storie.
E' una storia che inizia nel 1971, quando l'allora presidente del consiglio Emilio Colombo, dopo otto mesi di rivolta in quel di Reggio Calabria, pronunciava un duro discorso a Montecitorio in cui "prometteva alla città la carota e minacciava il bastone". Era il discorso in cui si lanciava quel vasto piano di investimenti e industrializzazione denominato "pacchetto Colombo", che avrebbe dovuto trasformare il profilo occupazionale ed economico di Reggio e provincia.
Come sempre, come nel caso delle acciaierie di Bagnoli, come sarebbe stato per il coevo V° centro siderurgico di Gioia Tauro, il tentativo di impiantare principi di capitalismo dall'alto era destinato a fallire tanto più in un territorio in cui ben altre erano le risorse da sfruttare: a partire dal rinnovamento dell'agricoltura, e quindi la valorizzazioni di prodotti come il bergamotto o il vino pregiato dell'area jonica e dell'interno, fino allo sbocco turistico, da sempre vagheggiato e mai realizzato. Siamo alle pendici della "questione meridionale", una questione che ha radici lontane e che diventava allora tanto più drammatica e pericolosa quanto più realtà come quelle mafiose e criminali si tardavano a combattere ed infine ad estirpare. Anzi, gli aiuti concessi alla provincia di Reggio finirono per favorire solo e soltanto le cosche mafiose, ed  è piuttosto paradossale ed insieme beffardo sottolineare come proprio sulla base di quei fondi stanziati dallo Stato, per la realizzazione delle industrie e lo sviluppo economico nella provincia reggina, le associazioni criminali siano state in grado di prosperare terribilmente, di abbandonare la dimensione rurale che le caratterizzava per compiere un salto nella categoria imprenditoriale, espandere traffici illegali anche grazie al Porto di Gioia Tauro, fare affari col cemento, aumentare la capacità di infiltrazione nelle strutture statali e parastatali, mettendo così le basi per un dominio implacabile e longevo che soffoca tutt'ora il territorio e che appare assolutamente inossidabile.
Ma torniamo alla Liquichimica; in realtà il complesso industriale del settore chimico doveva sorgere in Sicilia, ma in seguito alla rivolta il governo optò per concederlo alla nostra regione. Furono i Costanzo, cavalieri del lavoro catanesi, affidatari successivamente anche dell'appalto per la realizzazione dell'enorme complesso delle Officine Grandi Riparazioni, ad aggiudicarsi i lavori che poi subappaltarono alla cosca del luogo capeggiata da Natale Iamonte. Gli Iamonte, legati al capobastone Mico Tripodo, compare d'anello di Totò Riina, erano al vertice dell'organizzazione mafiosa del comune di Montebello Jonico e di Melito Porto Salvo e detenevano il totale controllo delle attività illegali della zona.
A Saline, insieme allo stabilimento, si costruì un porto che doveva servire alla movimentazione di tutti i prodotti liquidi; tuttavia, oltre a non esser servito allo scopo, il porto si dimostrò un'opera a dir poco catastrofica in quanto, a causa di macroscopici errori ingegneristici, l'insenatura portuale è finita col diventare un punto di concentrazione della sabbia impedendone così il normale ricambio e favorendo l'erosione della costa: problema incipiente di una parte del litorale jonico. L'ASI di Reggio Calabria, dal canto suo, aveva curato la costruzione di una grossa presa a mare per il raffreddamento degli impianti, la trivellazione di diversi pozzi e di vasche di raccolta per l'acqua dolce; la Liquichimica invece aveva costruito lo stabilimento, completo di tutto, assolutamente all'avanguardia, che si estendeva per 700.000 metri quadri sottratti alle coltivazioni di agrumeto (due Km lungo la costa per 400 m di profondità), una torre fumaria di 175 m che imperiosa svetta ancora oggi come un pugno nell'occhio, una centrale elettrica per l'autoproduzione di energia con la possibilità di scambiarla con l'Enel, serbatoi, laboratori chimici, cisterne, collegamento portuale con due pontili per poter partire con la produzione visti i ritardi nella consegna delle opere pubbliche, alcune delle quali furono ultimate molti anni dopo nonostante non servissero più. Lo stabilimento fu portato a termine nel 1973 e la produzione cominciò solo per piccole quantità sperimentali e soltanto per l'acido citrico, non per le bioproteine. Subito dopo l'ultimazione degli impianti l'Istituto Superiore della Sanità vietò la messa in produzione delle bioproteine per alimentazione animale in quanto, essendo prodotte con sostanze derivate dal petrolio, avrebbero potuto avere degli effetti cancerogeni sull'intero ciclo alimentare. Finiva così l'avventura della Liquichimica che negli anni '80 falliva e veniva rilevata dall'Enichim, il braccio chimico dell'ENI. I dipendenti assunti per lo stabilimento di Saline Joniche entrarono per direttissima in cassa integrazione, la più lunga della storia della Calabria, ben 23 anni che, in termini di stipendi, costò allo Stato italiano circa 2 miliardi di lire. Nonostante l'impossibilità di avviare la produzione, alla luce dell'immenso costo dell'opera, si continuò a fare manutenzione in attesa di una riconversione che nessun governo, di nessun colore, fu mai in grado di compiere. Trent'anni di manutenzione che ovviamente fecero lievitare i costi a cifre incalcolabili e che comunque non risparmiarono allo stabilimento di andare incontro ad un destino di totale abbandono.
Tappa intermedia dell'ex Liquichimica si ebbe nel 1997, quando il Consorzio Sipi (Saline Ioniche Progetto Integrato), costituito da imprenditori locali, ne rilevava all'asta gli impianti e i terreni limitandosi allo smantellamento ed alla rottamazione di quanto possibile tra acciaio e ferro.
Si arriva infine ai giorni nostri, nel 2006 l'impresa svizzera Sei S.p.a. (filiale di Repower) acquista l'area dove sorge l'ex Liquichimica (o quel che ne rimane) con lo scopo di realizzare, addirittura, una centrale a carbone: d'improvviso siamo sbalzati indietro di due secoli, in piena rivoluzione industriale quando le ciminiere delle fabbriche oscuravano il cielo di Londra, e non basta l'abusivismo che ha fatto scempio delle nostre spiagge, non basta la follia umana di coloro i quali allacciandosi abusivamente agli scarichi delle acque bianche inquinano, giorno dopo giorno, nella più totale indifferenza ed impunità, i nostri mari (per non parlare dell'oscura vicenda delle navi trasportanti materiale radioattivo che sarebbero state affondate a largo delle coste calabresi). Adesso ci sarebbe anche la centrale a carbone.
Dopo un lungo iter istituzionale e nonostante le battaglie della popolazione locale e delle associazioni per la salvaguardia dell'ambiente, il 15 giugno scorso arriva la decisone del Presidente del Consiglio Mario Monti di firmare il decreto di Via  per il progetto di centrale a carbone da 1.320 MW proposto da Repower. Un "si" che, come spiega Legambiente, è in controtendenza rispetto all'esito del referendum sul nucleare, e violerebbe l'impegno di ridurre i gas serra "facendo aumentare di tonnellate annue le emissioni di CO2" rivelandosi dunque una vera e propria follia sia in termini di impatto ambientale (a maggior ragione per un territorio con velleità turistiche), sia per quanto riguarda la salute pubblica. Un progetto industriale come quello presentato dalla SEI, ad alta intensità di capitale ma a scarsa ricaduta occupazionale, sarebbe anche in controtendenza rispetto al piano energetico regionale che aveva rinunciato al carbone per aprire e incentivare lo sfruttamento delle rinnovabili.
Ciò nonostante la partita non è ancora chiusa, vi sono ancora i tempi supplementari: lunedì 23 luglio alle 15 ci sarà una manifestazione presso Palazzo Campanella, sede del consiglio regionale, indetta dal Comitato contro la Centrale a Carbone di Saline Joniche, atta a sensibilizzare le istituzioni e gli uffici competenti affinché possano ricorrere al Tar del Lazio contro il decreto di Via a firma del Presidente del Consiglio. E' questa una battaglia in cui la cosiddetta "società civile" gioca un ruolo importante, perché, fino a prova contraria, in democrazia la genuina voce del popolo non può essere ignorata. Si rischia altrimenti di lasciarsi sfuggire un'occasione, far passare anche questo appuntamento nell'indifferenza e nel silenzio vorrebbe dire condannare un territorio, già vessato da altre piaghe, all'abbandono, alla metastasi ed alla morte.